Online da Aprile 2006



La cerimonia del tè

La cerimonia del tè (Sadō 茶道o Cha no yu, 茶の湯) è una delle tradizioni spirituali e sociali più note del Giappone.
La sua diffusione è legata principalmente allo sviluppo del buddhismo Zen. Fu infatti con il monaco buddhista e maestro del tè Sen no Rikyū (1520-1591) che la cerimonia divenne una vera e propria forma d’arte, assumendo in se stessa i concetti chiave dell’estetica zen. In particolare, il maestro evidenziò il concetto di wabi (侘び), ovvero la “sobria raffinatezza”, quello stato mentale che persegue la semplicità e il rifiuto dell’ostentazione. Sen no Rikyū predicava il liberarsi da ogni tipo di attaccamento alla vita mondana e la contemplazione del vuoto, a favore di un approccio mentale più diretto e totalizzante con la “talità” delle cose.
Secondo il maestro, sono quattro i principi fondanti della cerimonia del tè: l’armonia (wa和,), il rispetto (kei 敬), la purezza (sei清) e la serenità (jaku 寂).
Il principio dell’armonia sottende l’affrancamento da ogni tipo di estremismo e il perseguimento della sobrietà. A questo si lega anche il concetto di purezza, da non intendersi come il contrario di “impurità”. Piuttosto, esso si riferisce allo stato mentale dei partecipanti al rito: la mente deve essere “vuota”, purificata da qualunque attaccamento a vincoli mondani, così da facilitare l’esperimento di realtà sempre nuove. Solo così è possibile entrare in comunione con il tutto. Il rispetto, come riconoscimento dell’altro in quanto tale, è indispensabile per comprendere e apprezzare tutto ciò che ci circonda. Infine la serenità, che raggiunge il suo culmine proprio nell’incontro con il prossimo.
La cerimonia del tè rappresenta quindi non solo un momento di accrescimento spirituale personale, ma anche di apprendimento di quei canoni che regolano la relazione tra il sé e l’altro. La sacralità e la raffinatezza dei gesti coinvolti, canonizzati da Sen no Rikyū, rappresentano la calma interiore raggiunta da colui che esegue la cerimonia sotto la guida del proprio spirito, piuttosto che della propria mente. Nella stanza del tè (chashitsu茶室), durante la preparazione, il maestro è in ginocchio, mentre l’ospite attende vicino al tokonoma (床の間), una nicchia adornata da una composizione floreale e da un kakejiku (掛け軸, calligrafia o pittura su rotolo di carta) affisso alla parete. Non appena l’ospite riceve la tazza, detta chawan (茶碗), essa va ruotata lentamente con la mano destra sul palmo della mano sinistra in senso orario per due volte. Una volta bevuto il suo contenuto, l’ospite dovrà asciugare con il dito la parte umida della tazza dove si sono poggiate le labbra.
Nulla è lasciato al caso. Ogni gestualità e movimento della cerimonia viene eseguito con la massima precisione, cura e disciplina, così da risultare sempre armonico e calibrato.
Lo spirito della cerimonia del tè è perfettamente espresso anche dal concetto di “ichi go ichi e” (一期一会). Si tratta di un yojijukugo (四字熟語), ovvero una frase idiomatica composta da quattro ideogrammi e letteralmente traducibile con l’espressione “un momento, un incontro”. Proprio il singolo momento e la sua unicità stanno al centro di questo concetto legato alla transitorietà del tutto.
L’“ichi go ichi e” è spesso associato allo stesso Sen no Rikyū e, nel contesto della cerimonia del tè, serve a ricordare a tutti i partecipanti che, sebbene il rito in sé possa essere ripetuto più volte, avvalendosi di elementi e gestualità abitudinarie e familiari, il momento rituale è un incontro unico nel qui e ora del suo compimento. Pertanto esso è un invito a vivere quel momento intensamente nella sua momentanea unicità e irripetibilità.
Secondo questa visione, dunque, ogni incontro diventa prezioso: anche qualora dovesse riproporsi un domani, qualcosa lo renderà sempre diverso dal precedente e quindi unico. Diversi saranno per esempio il tempo e i soggetti in esso coinvolti. Del resto, il mutamento è congenito a tutto ciò che esiste nel tempo e nello spazio.
Anche la cultura occidentale non manca di concetti simili. Basti pensare al panta rei di Eraclito, in cui l’acqua del fiume che scorre simboleggia l’incedere impietoso del tempo e quindi la non permanenza di uno status. Ancora più evocativo è un passo delle “Lettere a Lucilio” (Libro I) di Seneca, in cui il filosofo invita l’amico a mettere a frutto ogni minuto e a impadronirsi del presente: “Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro”.
Spesso si cade nell’errore di credere che le stesse occasioni si riproporranno in futuro. In realtà, l’“ichi go ichi e” insegna che ogni occasione è di per sé identica a se stessa e diversa da tutte le altre, tanto nel bene quanto nel male. Ecco quindi che dietro la spiegazione c’è soprattutto il monito: l’individuo deve impegnarsi con tutto se stesso affinché possa godere pienamente del singolo momento, allontanando da sé il rischio del rimpianto.

a cura di Eleonora Blundo


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